Federico Sartori non ha lasciato scritti autografi sulla sua ricerca e vicenda personale; sono le opere rintracciate, i documenti, i cataloghi, le foto e gli articoli di giornale che, con la testimonianza dei preziosi racconti della moglie del pittore alla nipote, consentono di seguirlo più da vicino nella sua vicenda personale.
Sartori nasce a Milano nel 1865 dove muore nel 1938; la sua attività professionale si è svolta in gran parte in Argentina, prima a La Plata e poi a Buenos Aires, per continuare in seguito a Viareggio, eletta a residenza e luogo di lavoro al suo rientro in Italia dopo il 1920.
La biografia può essere suddivisa in tre periodi: quello della prima formazione a Milano a bottega come incisore e poi studente alla Scuola di Belle Arti di Brera; la giovinezza e la maturità come emigrante-pittore, che coincide con il momento delle affermazioni e dei riconoscimenti; infine l’ultimo periodo vissuto a Viareggio, altra fase molto intensa della sua produzione, con nuove visibilità e gratificazioni.
Sartori proveniva da una famiglia di origini modeste; era figlio di un sarto, Sirio, trasferitosi a Milano da Cremona, e di Paolina Rossi di Niguarda, allora Comune autonomo, oggi uno dei tanti quartieri di Milano; aveva una sorella, Ida, che lo seguirà nella sua avventura in Argentina. La famiglia abitava nei pressi della chiesa di S. Celso.
Terminate le scuole elementari, dove proverbiale era la sua distrazione e la passione per il disegno, aveva iniziato a lavorare come apprendista incisore; poi si era iscritto a Brera, per soli due anni; poco dopo, spinto dalle ristrettezze economiche, come tantissimi allora, decise di imbarcarsi a Genova su un veliero alla volta de La Plata, da solo. Lasciava Milano e la famiglia attratto dalla speranza di migliori fortune. In quella terra così lontana non era alla ricerca di un lavoro qualunque: voleva continuare a coltivare la sua vocazione alla pittura facendo tesoro di quanto aveva appreso fino ad allora.
A Milano e all’Italia rimase sempre molto legato; in lui fu sempre forte il desiderio del ritorno ma quel ritorno doveva avvenire solo se condizioni favorevoli lo avessero consentito.
A Brera aveva frequentato il corso di figura e nudo di Raffaele Casnedi e aveva potuto accostarsi a quello che allora era l’ambiente artistico cittadino con Bertini, Previati, Boito, Grandi, Morbelli, Grubicy. Aveva intrapreso i suoi studi con un coetaneo oggi di non poco conto: Pellizza da Volpedo. Portava con sè in Argentina le immagini dei classici italiani, a cui si era accostato durante gli studi all’Accademia Reale di Brera, unite a quelle che aveva conosciuto nei monumenti e nelle chiese della città: la Scuola Lombarda del Quattrocento ma anche il Rinascimento con Leonardo, Bramante e poi Tintoretto, Veronese, Michelangelo, Tiepolo, Canova, Appiani, Hayez, influenze e suggestioni varie, cui si univano i fervori artistici del momento con la produzione dei Simbolisti e dei Divisionisti.
La traversata fu avventurosa e disagevole ma il giovane Federico era animato da grandi speranze; lasciava l’Italia come tanti altri italiani in cerca di fortuna; nel nuovo continente avrebbe continuato a frequentare i suoi connazionali, era sì uno sradicamento, ma anche un ritrovarsi, quasi in una seconda Italia. Come artista, citando un articolo di Giuseppe Viner, “…”si accingeva a unire le qualità native con quelle in acquisizione, portando poi nelle sue opere il riflesso di questa fusione…”.”
Iniziò così la sua attività di “pintor “presso il Museo de La Plata, incarico che avrebbe svolto con passione per molti anni, fin quasi al finire del secolo. Piuttosto pragmatico e determinato, intanto inviava in Italia le commesse alla famiglia. Presto l’avrebbe raggiunto anche la sorella col marito.
Si trasferì nella capitale attirato dall’Accademia Nazionale nella quale completò gli studi interrotti a Milano e si diplomò. Questa scelta gli consentì di continuare nell’apprendimento, ma anche di inserirsi nell’ambiente artistico di Buenos Aires dell’epoca; così si avviò la sua carriera di pittore e grafico. Nel 1909 diventò “profesor titular “de “dibujo “in quella stessa istituzione e iniziarono gli anni delle mostre e della visibilità. Il suo nome figura nell’ Esposizione Nazionale di Buenos Aires organizzata da “Nexus”, nel 19088; nel 1910 partecipò all’Esposizione Internazionale del Centenario e una delle opere presentate: “La bandera argentina “venne premiata con la “medalla de plata”; espose altre opere, come pittore di chiara fama, alle successive Esposizioni Nazionali dal 1911 al 1918. L’attività di questi anni è rivolta all’approfondimento di un linguaggio allegorico chiaramente documentato da acquarelli, tempere, oli, grafica rimaste in possesso della famiglia. Una serie di suoi dipinti sono stati utilizzati come illustrazioni di un calendario per sottolineare un anniversario dello Stabilimento grafico Gunche Wiebeck y Turtl di Buenos Aires; altri dipinti figurano come illustrazioni di cartoline per la Pro Patria per l’Istituto Argentino di Arti Grafiche. Diverse anche le cartoline realizzate per cartolerie e per un diploma di grafici.
Un’allegoria, “La lucha entre el morbo y la ciencia”, venne acquistata dal Museo Nazionale di Buenos Aires nel 1913, ora in prestito al Museo nazionale di Bahia Blanca; di quest’opera sono stati reperiti degli studi preparatori e due acquarelli: uno del 1905 e l’altro del 1907.
Significativi i disegni rimasti della parentesi Argentina, l’artista utilizzava il disegno nella preparazione dei dipinti ma anche fine a se stesso per studi del paesaggio oceanico, il porto con le navi, scene di vita mondana borghese, fatti e personaggi di strada; altri disegni denotano il suo grande interesse per il ritratto, gli animali, gli atteggiamenti delle persone, i costumi di vita della pampa; sono da considerarsi una anticipazione di alcuni suoi “taccuini” di disegni sulla vita viareggina.
L’insegnamento in Accademia divenne occasione di molti incontri diretti e indiretti con artisti che abitavano a Buenos Aires o che inviavano le loro opere dall’Europa, in particolare dall’Italia – da Firenze e Roma – e dalla Francia.
Nacque una grande amicizia con il Direttore dell’Accademia prof. Pio Collivadino, col prof. Carlos Ripamonte, entrambi pittori, che gli avrebbero poi inviato in Italia un interessante volume in occasione del cinquantenario dell’istituzione, con una dedica significativa: ““All’amico Federico Sartori, che svolse con zelo e intelligenza il lavoro di docente offrono con affetto e stima i suoi compagni di ideali e di lotta…””, accanto a questi nomi figurano nomi di artisti locali: Josè Quaranta, Edoardo Sivori, pittori, Torquato Tasso scultore; nominativi che compaiono di frequente fra i giurati nelle Esposizioni Nazionali.
Una segnalazione puntuale merita l’ Esposizione Internazionale del Centenario del 1910, non solo per la premiazione del pittore già ricordata, ma perchè in quell’occasione inviarono opere dall’Italia Galileo Chini, Emilio Gola, Grubicy De Dragon, Emilio Longoni, Pompeo Mariani, Angelo Morbelli, Gaetano Previati, Plinio Nomellini, Luigi De Servi e dalla Francia Monet, Odilon Redon, Renoir, Rodin e giungevano opere dal Belgio, dai Paesi Bassi, dalla Spagna, dall’Austria-Ungheria, dalla Germania, dalla Svezia, dalla Norvegia, dagli Stati Uniti, dal Cile e dall’Uruguay.
Josè Quaranta fu importante nella vita di Sartori perchè era maestro di Kettie Ross-Broglia, pittrice, presente in numerose mostre, ma soprattutto futura cognata; nella villa dei Ross-Broglia spesso si incontravano artisti, cantanti e musicisti di passaggio in Argentina che rallegravano le serate cantando le opere accompagnandosi al pianoforte, cenando preferibilmente con pietanze milanesi; anche la famiglia Ross-Broglia proveniva da Milano e le tre giovani sorelle si dedicavano all’arte; la prima, Kettie, come detto alla pittura, la seconda, Maria – futura moglie dell’artista – si dilettava a scrivere poesie, la terza, Lidia, suonava il pianoforte. Sartori fece ingresso in questa famiglia con un altro amico pittore, Torcelli, e con Maria fu amore a prima vista. Si sposarono con una cerimonia favolosa nel 1912.
In pochi anni la vita del pittore, tenace nei suoi intenti, cambiò e alle soddisfazioni professionali si aggiunsero quelle affettive. Nel 1914 nacque il figlio Mario.
I Sartori spesso andavano sull’oceano, numerosi i disegni con la moglie sulla scogliera di Mar del Plata disegnati a matita nel marzo 1913; dei suoi viaggi avventurosi in carrozza nella Pampa vi sono testimonianze in una serie di quadri ad olio a soggetto argentino esposti poi anche a Viareggio; si spinsero fino a Rosario, Montevideo e alle cascate dell’Iguatzù.
La giovane moglie era affascinata dal carattere allegro e gioviale del pittore e dalla sua voce da tenore, oltre che dai suoi colori e dalle sue figure che talvolta avevano suscitato discussioni animate… ma ““ei lascia dir le genti e con sguardi sorridenti ai nemici il buon umore per risposta dà il pittore””, scriveva in una poesia.
Le famiglie vivevano nel quartiere di Belgrano. Spesso si recavano dagli amici Brenna, proprietari del Mulino, una”confiteria” in centro famosa per le empanadas.
Intanto dall’Europa giungevano venti di guerra. I Ross-Broglia e i Sartori, come tutti gli Italiani d’Argentina, seguivano con grande partecipazione i tragici avvenimenti, il pittore dedicò al tema della guerra diverse opere allegoriche.
Nel 1920, a conflitto terminato, decisero di ritornare tutti in Italia tranne la famiglia della sorella del pittore che si stabilì definitivamente in Argentina. La partenza dell’artista venne enfaticamente ricordata in un articolo su “L’Italia del popolo” di Buenos Aires del 16 marzo 1920 dal critico Renato Censori “….”E buon viaggio auguriamo a Federico Sartori, il simbolista, pittore rivoluzionario… produttore fecondo che illumina le giovani menti della Accademia….egli torna in patria a godersi un periodo di riposo legittimamente guadagnatosi…” ”
Partirono sul Principessa Mafalda, un enorme e confortevole piroscafo. Tutta la famiglia era emozionatissima al porto di Buenos Aires. Stavano per lasciare per sempre una terra in cui avevano trovato il benessere. Vendute le case in cui avevano abitato erano pronti a ricominciare in condizioni migliori in Italia. Nei bauli portavano gli oggetti più cari; non mancavano le tonde cappelliere di Maria e naturalmente i quadri, i disegni, i cataloghi, le stampe del pittore. Il viaggio sarebbe durato un mese.
Alcuni scatti fotografici riprendono la famiglia Sartori al momento della partenza: il pittore con un cappello bianco, un abito scuro, la moglie con una lunga gonna bianca e il piccolo Mario vestito alla marinara. Tra la gente assiepata a terra rimaneva la sorella con il marito e la loro bimba Rosina. La traversata dell’oceano era allietata da una festa particolare: il saluto all’Equatore; in quell’occasione si passava la notte in canti balli e brindisi. Giunti in Italia i Sartori decisero di non ritornare a Milano per il clima troppo diverso rispetto a quello cui erano abituati. Volevano fermarsi in una località preferibilmente di mare. Soggiornarono a Como dai Ross-Broglia, ormai rientrati a loro volta, poi in un casale della campagna bergamasca, quindi per breve tempo a S. Margherita Ligure. Quando però giunsero in Toscana, rimasero affascinati da Viareggio, vivace dal punto di vista culturale e dotata di tante attrattive naturali, piacevole per la sua gente e gradevole per il clima.
Federico e Maria scelsero come luogo di residenza una villetta in via della Costa, poi via IV Novembre. Dovettero arredarla completamente e presto si riempì di quadri tele e affreschi del pittore. Al suo interno spiccavano degli affreschi con alcune allegorie del mare che Sartori dipinse a scopo decorativo.
La casa per quanto confortevole non era sufficiente per l’attività dell’artista; dopo un breve periodo in cui ebbe uno studio a Pietrasanta e uno in via Leopardi, il pittore si occupò personalmente della progettazione e realizzazione di un atelier in via De Amicis, quello dove avrebbe lavorato per tutto il tempo che trascorse nella città per lui nuova.
Di via IV Novembre resta un disegno che riprende la strada di scorcio; la sua casa, ombreggiata da una palma, si trovava quasi all’angolo con via XX Settembre, dalla parte opposta rispetto alla Chiesina degli Inglesi. In questa “”luminosa villetta””, citando Ugo Pellegrinetti (talora con lo pseudonimo di PUGO e di G.A.P.) nel “Giornale d’Italia”, “… “il pittore vive quasi solitario con la famiglia compiendo solo un’apparizione serale al cenacolo artistico del Torricelli””: la discrezione e la riservatezza erano una caratteristica di entrambi i Sartori. L’artista lavorò, come detto, anche per qualche tempo a Pietrasanta; il pittore Giuseppe Viner nel ‘25 su “Il nuovo giornale di Viareggio” elencava alcune opere, a suo giudizio degne di attenzione, che si trovavano appese “”alle pareti dello studio che il pittore ha improvvisato a Pietrasanta””.
Dopo qualche mese dal rientro trascorso in “riposo” l’attività di Sartori riprendeva dunque a pieno ritmo. Ugo Pellegrinetti nel ‘22 su “Il Popolo” così annotava:”… “col suo sorriso affabile e modesto ci illustrò in maniera chiara il concetto dei suoi lavori….. composizioni scenografiche, mirabili per prospettiva… con sfondi fantastici e…vivacità di colore…. figure in vigoroso rilievo”” e ancora nel ‘22 in “Note d’arte” su “Il Giornale d’Italia”, in occasione della personale alla Galleria Nettuno, si legge: “…”espone quasi tutte scene viareggine che ha eseguito in pochi mesi…Il ponte di Pisa, Il veglione, Al Politeama, La stazione d’inverno, Via Pinciana, I pescatori di cee, Il ritorno delle paranze, Nella spiaggia…molti quadri son fatti per divisionismo… espone anche alcune concezioni allegoriche,… alcune sintesi dalla Divina Commedia e della guerra europea”…”. Nel ‘25 Viner scriveva ancora su “Il nuovo giornale”:” …”il pittore Federico Sartori è nuovo per noi…le sue vaste tele, i suoi cartoni, i suoi abbozzi, dimostrano una mente equilibrata e pur impetuosa…ha molto lavorato…alcuni quadri di arte sacra sono tra i migliori che io conosca….””. In effetti le anime del pittore si esprimevano in numerosissime opere: quella spontanea dell’osservatore di ambienti e persone e quella più aulica e ufficiale, ora orientata soprattutto a soggetti religiosi ma anche a fatti storici; è un omaggio a Michelangelo la tela raffigurante il trasporto del marmo per il “Mosè “ambientata nella piazza di Pietrasanta e lì dipinta; particolare anche la tela “Il Rigoletto” tutta giocata su tenui colori verdi, tela dalle dimensioni inusuali, omaggio questo sicuramente a Verdi, alla Scala, a Milano.
Scorrendo il catalogo della personale alla Galleria Nettuno emerge quasi una serie fotografica di luoghi e situazioni viareggine: oltre quelli già citati dal Pellegrinetti nel suo articolo si trovano “Il canale”, “La piazza del mercato”, “Il tramvay di Camaiore”, “Il ponte girevole”, “Il ponte sul Fiumetto”, “L’entrata alla pineta arciducale”, “Il ponte della ferrovia”, “Il ballo popolare di via Machiavelli”, “La darsena Toscana”, “La gita in pattino”, “Bimbi in pineta”, “La sala d’aspetto della stazione “e “Pescatori con lampare in notturno”; sarà ricorrente anche in seguito questa scelta dei soggetti ripresi di notte su cartoni a pastello colorato.
Il pittore, ritraendo Viareggio nei suoi luoghi più noti ma anche in quelli più nascosti, manifestava le sue qualità di disegnatore attento, veloce e sicuro nel segno, entusiasta e innamorato di ciò che andava scoprendo. In questi “taccuini” andava delineandosi in modo preciso la sua curiosità per il vivace mondo della darsena e del canale, con le sue imbarcazioni, i suoi personaggi, le fatiche quotidiane dei pescatori e delle loro donne, senza trascurare di appuntare frivolezze e amenità dei villeggianti con benevola ironia.
Dagli appunti ricavava i dipinti eseguiti ad olio, spesso sono su compensato marino, in serie tutte di uguali dimensioni. Accanto ai soggetti viareggini continuava a esporre le piccole opere di ambiente argentino, la pampa in particolare, mondo a lui particolarmente caro anche nel ricordo.
Nel 1923 partecipò a Como alla “Piccola Permanente d’arte moderna”, esponendo soggetti analoghi; si tratta di una collettiva insieme alla cognata Kettie Ross-Broglia, ai pittori Eligio Torno e Paolo Discacciati. Come risulta da un foto d’epoca, sempre a Como, Sartori dipinse un’allegoria raffigurante L’arco voltaico, in occasione delle celebrazioni voltiane, sullo stile di altre allegorie eseguite in Argentina. Nel ’26 su la Nazione a proposito di alcune opere si scriveva: “…”pannelli di carattere decorativo…concezioni classiche dei cinquecenteschi…progetti decorativi per un monumento ai caduti,…. scene della passione”,….”. In effetti contemporaneamente ai temi di ambiente il pittore continuava la sua ricerca simbolista sulla guerra e si accingeva a produrre numerose opere di carattere religioso. Sempre su “La Nazione” del ‘26 è detto che il pittore stava dipingendo il quadro “Il figlio del mutilato”, opera che ritrae la disperazione e la sofferenza; di questo lavoro non è rimasta traccia neanche nei disegni; in famiglia è rimasto, invece, un olio intitolato “Monumento ai caduti”, in cui campeggia un croce bianca coperta di neve.
La partecipazione alla XIV Esposizione Internazionale d’arte della città di Venezia aveva costituito un riconoscimento significativo del suo lavoro in Argentina quale pittore simbolista. Nell’occasione espose quattro quadri in bianco e nero che costituivano un’opera unitaria: “I quattro anni di guerra”, un’opera del periodo argentino portata dal pittore al suo rientro in Italia, coordinati per un soffitto e rappresentanti ognuno una scena allegorica in bianco e nero, titolati ognuno con un anno della guerra “1915”, “1916”, “1917”, “1918”.
La partecipazione di Sartori a questa mostra nel ‘24 non era legata alla sua attività in Italia che, pur essendo intensa, copriva un periodo troppo breve. In giuria, presieduta da Giovanni Bordiga, figuravano i nomi di Casorati, Nomellini, Pomi, Trentacoste, Van Biesroeck, Cahine, Pica, Borra, Fabbricatore, Cascella, Viani…
Il dramma della guerra ricorre anche in un’opera scultorea, un bassorilievo in marmo bianco di Carrara, intitolato appunto “Monumento ai caduti”, un gruppo di soldati in corsa che sorreggono una bandiera, destinato al Comune di Baiedo in Valsassina, non lontano dal lago di Como, tuttora esistente e visibile. L’opera viene ricordata in un articolo su “Il Gagliardetto” di Como del 1927, anno in cui fu inaugurata.
Nel 1924 espose a Firenze alla Mostra dell’Associazione Nazionale degli artisti i dipinti a olio su tela: “Cavallo al sole”, “Alla fonte”, “Entrata delle paranze”, opere dipinte e ispirate a Viareggio.
Nel 1926 è presente alla Permanente di Milano alla Prima Mostra d’Arte di Artisti Milanesi MCMXXVI”, con “Il Rimorso”, di cui il Pellegrinetti aveva scritto… ““una vasta tela raffigurante il Giuda di Keriot …trattasi di un buon artista e di un’opera di valore””. Quest’opera viene ricordata ancora dal Pellegrinetti in un suo articolo “”…due anni fa per dimostrare ad alcuni artisti versiliesi che gli negavano l’attitudine a sciogliere il mondo dei dettagli anatomici eseguì il Rimorso”…”. Era dunque un pezzo di bravura dimostrativo che finiva alla Permanente? D’altra parte il clima viareggino comprendeva anche spiriti polemici; sempre citando il Pellegrinetti a proposito del “Cenacolo artistico Torricelli”, frequentato anche da Sartori, così si legge: “”… [il circolo] dove imperversa la barba asprigna di E.Pea e dove contro il nostro pittore appuntava fino a ieri i suoi strali velenosi Moses Levy..””.
L’opera religiosa più impegnativa fu l’esecuzione degli affreschi della Misericordia di Viareggio. Nel 1927 a Sartori veniva affidato l’incarico dalla Misericordia di Viareggio di affrescare la chiesa dell’Arciconfraternita; cosi è scritto nel volume “Misericordia di Viareggio 1826-1986, note di cronaca e di storia”: “”Probabimente dopo la festa del SS Crocefisso viene dato inizio all’opera di restauro della Chiesa; si provvede a affidare l’incarico di dipingere la volta e le pareti della chiesa al pittore Federico Sartori; purtroppo non possediamo gli schizzi dell’opera realizzata, che è stata successivamente coperta perchè sciupatissima dal tempo e dall’umidità che aveva invaso i locali; sappiamo soltanto che nel registro ‘Amministrazione della chiesa parte passiva dal 1924 al 1950 al pittore Federico Sartori venivano date ‘L.10000’, e ancora ‘Al Prof.Sartori per le pitture L. 2500’“”.
Di questo lavoro il Pellegrinetti scriveva su’“Il Giornale d’ Italia”:””…due anni fa affrescò in pochi mesi la chiesa d Misericordia che sorge in piazza Vittorio Emanuele”…” e aggiungeva a proposito delle polemiche che l’opera aveva suscitato:””…la critica da caffè si è accanita contro la serena impassibilità dell’artista…” “di seguito dà informazioni preziose ““…non si avvale nè di cartoni nè di spolveri…improvvisa su intonaco fresco con rapidità vertiginosa…nella navata principale il martirio di S.Paolino sacrificato da Nerone davanti al tempio della dea Diana…nella cupola centrale ha risolto la struttura a arco piatto con l’Ascensione e gli Apostoli di scorcio…gli episodi si armonizzano bene con gli elementi architettonici come avviene per le Sette opere della Misericordia ai lati a destra e a sinistra della volta… due lunette sugli altari laterali con Gesù apparso a S.Margherita…e la Vergine che protegge i naufraghi nella tempesta, tra cui è collocato Pea per l’opera blasfema del Giuda, oggi ripudiata e salvato…sopra l’organo la lunetta con S.Elena che rinviene la Croce nel tempio pagano sul Calvario…sopra l’altare maggiore la Crocefissione e ai lati sottostanti la Deposizione e la Flagellazione”.”
Fra le persone che ricordano il pittore mentre affrescava vi erano anche dei bambini, come Don Carlo Francesconi, che era lì col padre per le impalcature, e che conservava di quell’opera una memoria vivissima, con relativi aneddoti, e il maestro Giorgio Michetti; anche il pittore Eugenio Pardini, che lavorava allora come garzone in un negozio di barbiere nei pressi della chiesa, ricordava la tecnica di getto e veloce e le figure aeree, quasi sospese nel vuoto, con i colori predominanti rosa e azzurri.
Nel ’28 l’artista affrescò una Santa Dorotea per il Convento di Suore di via XX Settembre a Viareggio, una lunetta ancor oggi visibile dalla strada e miracolosamente conservatasi nonostante i tanti decenni trascorsi, di cui è rimasto anche il bozzetto preparatorio a olio su tela.
Anche dagli Stati Uniti e dal Brasile gli erano state commissionate un’ottantina di opere religiose che poi avrebbero preso da Viareggio la via del mare per decorare delle chiese d’oltreoceano (Brasile e Pennsylvania, annotava la nonna), pur non avendo notizie precise sulle località di destinazione, in famiglia sono state conservate delle foto d’epoca di una “Via crucis”, di alcune figure di Profeti e Apostoli, e di episodi della vita di Cristo; inoltre, sempre di genere sacro sono da segnalare tra le tele conservate alcune preparatorie degli affreschi della chiesa della Misericordia, diverse Madonne e una “S.Cecilia” di cui è rimasto un quadro e un bozzetto.
La moglie e il figlio spesso hanno affermato che la produzione di Sartori, copiosa, aveva sempre avuto un discreto successo commerciale, anche a Viareggio. Tra i quadri dispersi sono citate dal Pellegrinetti alcune allegorie dedicate al mare, “Le donne aspettanti”, “Una sirena canta”, “Naufragio dei marinai”; d’altra parte anche sfogliando i vari cataloghi moltissime delle opere elencate non figurano tra i dipinti rintracciati.
Nonostante l’attività piuttosto intensa, il pittore passava molto tempo con la sua famiglia. D’estate andavano in vacanza a Barga, a Bagni di Lucca, a Pian de’ Lagotti, a Como dalle cognate o a Canzo nel Lecchese. Spesso poi, fatto del tutto eccezionale per quei tempi, andavano con Dino Dini e la moglie in automobile alla scoperta dei dintorni di Viareggio. Dini era uno dei costruttori di Viareggio e di Lido di Camaiore; sua era la casa costruita in via De Amicis di fianco allo studio del pittore, in fantasioso stile liberty; così non solo Dino e Federico erano diventati presto amici ma anche Maria e Marietta e i rispettivi figli. In casa Dini si conservano ancora dei quadri di Sartori. Anche Mario cresceva in fretta. Terminate le scuole elementari aveva frequentato il Liceo Classico Carducci ottenendo dei buoni risultati. Il padre aveva un grande affetto per lui, teneva molto alla sua istruzione, visto che doveva costruirsi un futuro tutto suo; lo ritraeva spesso nei suoi quadri e taccuini. Attraverso il pittore e il figlio il mondo delle conoscenze e delle amicizie si allargava: accanto agli artisti che allora lavoravano a Viareggio, e che ormai conoscevano tutti Sartori, si aggiungevano i fratelli Berti, Colombo e Anna Pieraccioli, Emiliano Chiapparini, i fratelli Raggiunti poi orafi in Passeggiata, i Funck, Pietro Tobino, fratello dello scrittore, il preside Giannarelli, il prof. Jenco. Sui taccuini del pittore compaiono i ritratti di personaggi noti e meno noti: l’amico Dini, Jenco, Pea, il farmacista Leone Leoni, Puccini, signori e signore che frequentavano la Passeggiata. Mario ebbe un’infanzia e un’adolescenza spensierate a Viareggio, libero come l’aria al mare in bicicletta in pineta, o in impegnative escursioni sulle Apuane con padre Biagi e Del Freo. Oltre ai disegni e ai quadri del padre, numerose sono le foto rimaste che lo riprendono in tutte le fasi della sua giovinezza a Viareggio. Si conservano in famiglia anche i vari diplomi di merito del Classico; a questo proposito in un volume edito dal Liceo Carducci la sua classe viene ricordata come la prima veramente numerosa dell’istituto; tra i suoi compagni figura Andrea Del Sarto, morto disgraziatamente durante una scalata sulle Apuane, fatto che aveva lasciato un grande sgomento nei suoi coetanei.
Anche negli anni ‘30 l’attività del pittore continuò in modo piuttosto serrato; i suoi numerosi taccuini riportano frequentemente a quegli anni; ai temi di Viareggio si aggiungevano altre scene di ambiente: le campagne dei dintorni e le povere abitazioni, spesso con il monte Prana sullo sfondo, i pastori, le donne nei campi, i contadini, i cavalli a lavoro, gli asini, i buoi; oppure figure particolari come il bambino che vende la cecina, il maniscalco, soldati a cavallo o a riposo con fanciulle.
Ricorrente la figura della donna nelle sue vesti di popolana o di signora slanciata e elegantissima; altri luoghi di Viareggio vengono rappresentati: il Liceo Carducci, La trattoria del buon amico, Il tennis Italia, La taverna del gatto nero; spesso i personaggi della pineta con una automobile o con una moto, segni dei nuovi tempi. Sono questi i soggetti delle opere presentate in quegli anni dal pittore nelle sue mostre; nel ‘33 al Bagno Narcisa è prevalente il suo interesse per il tema della pesca e dei pescatori.
Alla I° Mostra Estiva Viareggina al Kursaal nel ’34 partecipa con l’opera “Marmi”. Ancora nel ‘34 con gli artist versiliesi: Bachini, Bellandi, Casentini, Catarsini, D’Arliano, Di Ciolo, Di Prete, Dudreville, Francesconi, Granchi, Marchetti, Molinari, Murri, Orlandi, Paltrinieri, Santini, Sargentini, Viani espose nei locali della “Lega navale (molo di ponente)” le seguenti opere: “In darsena”, “In porto”, “Ritorno dalla pesca”, “Vela bianca”, “Pescatore”.
Nel ‘36 lo troviamo a Milano alla Permanente alla VII Mostra Sindacale Interprovinciale di Belle Arti con l’opera “Cavalli al trotto ” e sempre alla Permanente alla Mostra Acquerellisti lombardi con l’opera “Terra di Versilia”.
Ormai l’interesse del pittore era rivolto a Milano, anche per motivi famigliari. Per quanto molto attivo, gli anni cominciavano a pesare anche per lui e bisognava pensare al futuro del figlio che doveva intraprendere gli studi universitari. Così decise di lasciare la Versilia per ritornare nella sua città di origine, che aveva visto partire lui e la futura moglie ancora adolescenti.
Era una Milano molto diversa rispetto ai loro ricordi giovanili. In tanti decenni si era ampliata e aveva superato di molto i vecchi confini segnati dai bastioni spagnoli. Non tornarono a abitare nelle strade del centro storico ottocentesco, tutte a ridosso del Duomo, come Contrada S.Margherita dove era nata Maria o la via presso S.Celso dove aveva mosso i primi passi Federico. Scelsero un quartiere tranquillo quasi ai margini della città pieno di villette che vagamente ricordavano Viareggio.
Non era un trasferimento definitivo, almeno nelle intenzioni del pittore: la casa e lo studio di Viareggio erano infatti rimasti di loro proprietà. Dell’ultimo breve soggiorno milanese rimangono due dipinti: la vista della loro nuova casa e della chiesa parrocchiale di Casoretto e un lavoro interrotto: la sistemazione in adeguate cornici di tele arrotolate dimostra che sono opere da cui non si era voluto mai separare.
L’ultima tappa della sua vita si interruppe bruscamente; lasciò alla sua famiglia un vivo ricordo di sé, anche con le numerose opere rimaste in attesa di lui nel suo studio.
Le Esposizioni:
- Esposizione annuale di Belle Arti, Nexus, 1908
- Esposizione Internazionale d’arte del centenario, Buenos Aires,1910 (Sueno de libertad, Lux, La bandera argentina)
- Esposizione Nazionale d’Arte, Buenos Aires, 1911 (La Esfinge,La cigarra y la hormiga)
- Salone Annuale, Buenos Aires, 1913 (La lucha entre el morbo y la ciencia)
- Salone Annuale, Buenos Aires,1914 (Un espiritu superior rige el universo y rendeva la vida)
- Salone Annuale, Buenos Aires,1915 (1914)
- Salone Annuale, Buenos Aires,1917 (Imperialismo)
- Salone Annuale, Buenos Aires,1918 (Resabio barbaro)
- Galleria Nettuno,Viareggio,1922, personale
- Piccola permanente di Como,1923
- XIV Biennale Internazionale d’arte città di Venezia,1924 (Quattro anni di guerra 1915,1916,1917,1918)
- Mostra dell’Associazione Nazionale degli Artisti, Firenze,1924 (Cavallo al sole, Alla fonte, Entrata delle paranze)
- Galleria Nettuno, 1926
- I Mostra Artisti Milanesi, Palazzo della Permanente Milano,1926 (Il rimorso)
- Bagno Narcisa,Viareggio,1933, personale
- Mostra Marinara, Locali della lega Navale Italiana, Viareggio,1934 (In darsena, In porto, Ritorno dalla pesca, Vela bianca, Pescatore)
- I Mostra Estiva Viareggina, Kursaal, Viareggio,1934 (Marmi)
- VII Mostra del Sindacato Interprovinciale Fascista di Belle Arti di Milano, Palazzo della Permanente, Milano,1936 (Cavalli al trotto)
- XVII Esposizione Acquerellisti lombardi, Palazzo della Permanente, Milano, 1936 (Terra di Versilia)
- Federico Sartori. Viareggio, Galleria Mercurio, arte contemporanea, Viareggio, 2007
- Federico Sartori pittore, Le stanze della Memoria, Barga, 2008
- Pittura e realtà 1900 – 1990 la figurazione a Viareggio nel panorama dell’arte italiana, Villa Paolina, Viareggio 2008 (Entrata delle paranze, Maschere)
(*) Si dà qui conto di tutti i dati attualmente in nostro possesso
Testi: Laura Sartori
© Studio d’Arte dell’800
La Critica
La produzione artistica di Federico Sartori mostra quanto vasta fosse la sua cultura e allo stesso tempo l’agilità del suo talento nell’attingere ora all’una ora all’altra sollecitazione/suggestione che proveniva dal mondo coevo, pur rimanendo sempre fedele ad un’indole contrassegnata da una fervida curiosità verso i suoi simili accompagnata tuttavia da una sorta di pacato distacco nell’osservare e riprodurre atteggiamenti, scene di vita, fatti storici come rappresentazioni sacre.
Il “mestiere” che aveva appreso fin dalla tenera età, che lo condurrà ad essere un emigrato privilegiato quando affronterà la grande avventura argentina, gli consentì di realizzare una pittura in grado di essere compresa e condivisa, dunque apprezzata, sia nelle sedi ufficiali sia nell’intimità delle mura domestiche, fu infatti sia pittore di cavalletto sia esecutore di opere pubbliche o comunque di carattere celebrativo nonché illustratore e creatore di opere grafiche a scopo divulgativo e pubblicitario.
Prova evidente del successo che ebbe presso i contemporanei è l’esiguo numero di opere rimasto in possesso della famiglia, a fronte di una documentazione che invece testimonia una ricca produzione. Dei trentasei anni trascorsi in Argentina riportò in Italia appena una ventina di quadri e poche decine di disegni e relativamente basso è il numero dei dipinti che restano degli ultimi due decenni della sua vita che pure sappiamo prolifici. Per questa ragione il percorso della sua ricerca artistica che qui ci accingiamo a ricostruire è necessariamente provvisorio, basato su ipotesi fondate su quanto attualmente a nostra disposizione, in attesa di verifiche e riscontri che potranno venire soltanto quando, anche grazie alla pubblicità data a questa prima retrospettiva, sarà possibile iniziare a rintracciare i collezionisti dell’artista per avere a disposizione immagini e documenti al fine di redigere un catalogo generale dell’opera del Maestro milanese.
Il grande sforzo di ricerca compiuto dalla nipote del pittore, Laura, i cui risultati sono in parte pubblicati su questo volume, ha purtroppo per il momento ottenuto scarsi risultati in Argentina, forse anche in mancanza di una sorta di ufficialità della ricerca che questo catalogo, insieme alla già avvenuta pubblicazione del sito internet, speriamo possa farle ottenere.
La produzione di Sartori è caratterizzata dalla coesistenza di scelte linguistiche assai diverse, il variare degli stili però, più che un’adesione alle tendenze dominanti dell’epoca, sembra piuttosto corrispondere alla compresenza di esigenze espressive diverse: la sua volontà di rappresentazione, il suo “kunstwollen “attingevano liberamente ai linguaggi che l’arte aveva fino a quel momento adottato e sperimentato senza preoccuparsi di essere in linea con la contemporaneità; riteniamo che per Sartori gli stili fossero principalmente registri linguistici, variabili a seconda dei soggetti e delle situazioni. Se il periodo argentino appare dominato dalle atmosfere simboliste, al ritorno in patria corrisponde una marcato orientamento verso lo stile divisionista in presenza però anche di rappresentazioni caratterizzate da campiture ampie con riferimenti al “cloissonnisme”, infine un apparente ritorno ad atmosfere di vita di paese tipicamente ottocentesche convive con le ultime esperienze segnate dal sintetismo proprio della cartellonistica pubblicitaria che si andava affermando in quegli anni. Parallelamente a tutto questo si sviluppa la produzione a carattere sacro che oscilla fra evocazioni cinquecentesche ed echi decò; ci sono pervenuti inoltre esemplari di scenografie di cui però al momento è difficile stabilire scopi e destinazioni, infine sappiamo che Sartori si dedicò anche, non occasionalmente, alla creazione di materiali divulgativo-pubblicitari, di cui però ad oggi possediamo pochi esemplari prevalentemente segnati dalla linea liberty.
Una considerazione a parte meritano i disegni, un autentico “plateau de l’umanité”, un vasto campionario di paesaggi e scene di vita quotidiana, eseguiti anch’essi con differenti linguaggi, che mantengono tuttavia nell’insieme l’effetto di una lunga pellicola cinematografica girata fra la gente, un documentario ricco e variato della vita di allora. Attraverso i disegni di Sartori veniamo a conoscenza di mestieri come di moda, di hobby come di cibi, di scorci di città e di campagna. Uno spensierato sguardo riproduttivo, molto simile a quello di Moses Levy, attento però non tanto alle luci e ai colori quanto agli atteggiamenti umani. Del resto sia l’Argentina a cavallo dei due secoli sia la Viareggio fra le due guerre, dove si concretizza la maggior parte della produzione del Nostro, erano caratterizzate da ambienti che consentivano di attenersi ad una rappresentazione della vita nella sua semplice linearità come se nulla dovesse turbare gesti e mansioni degli uomini e delle donne. Si fa fatica a scorgere malinconie o fatica, nostalgie o inquietudini, gli esseri umani ritratti da Sartori sembrano magicamente immersi e concentrati nel gesto presente, sia esso il controllo di un cavallo al galoppo o la contrattazione del prezzo del pesce, una partita di tennis o l’approvvigionamento dell’acqua alla fonte.
A Sartori piaceva disegnare e lo faceva con una grande abilità che certamente gli proveniva da quel primo apprendistato a bottega come incisore nella sua lontana adolescenza. L’accuratezza di certi esemplari ci porta a pensare che non si trattasse di meri appunti ma di opere compiute, come è il caso ad esempio di: “Venditore di Cecina, Figure Femminili, Belgrano.”
A prescindere dalla differenza di linguaggio con cui affronta la rappresentazione della realtà si può dire che l’atteggiamento di Sartori disegnatore non muta sostanzialmente durante tutta la sua vita e anzi, proprio questa copiosa produzione grafica sembra confermare la nostra ipotesi dell’uso degli stili come registri linguistici: vuoi che utilizzi il tratto classico del disegno, vuoi che si concentri sul linguaggio sintetico, vuoi che si diletti nel chiaro scuro, nel pastello, nella matita, il significato dell’immagine non cambia.
La capacità di Sartori di ritrarre vivacemente e senza giudizio la vita contemporanea connota di freschezza anche certi dipinti nei quali, come nei disegni, sembra di avvertire i suoni dei luoghi e le voci dei personaggi che vi sono rappresentati.
Federico Sartori parte per l’Argentina intorno al 1884 dopo avere frequentato per due anni i corsi all’Accademia di Belle Arti di Brera. La cultura milanese del periodo è contrassegnata dalla Scapigliatura mentre sono giunte a definitivo compimento in Francia la rivoluzione impressionista e in Italia quella macchiaiola, tanto da essere in procinto di essere messe in secondo piano da nuove ed altrettanto entusiasmanti sperimentazioni. Questo significa che tutto quanto di “europeo “contraddistinguerà la produzione del Nostro in terra argentina è là che viene appreso, e per quanto lontano all’epoca dovesse apparire il Sud America, l’esperienza di Sartori è esemplare di quanto invece fosse costante il flusso delle informazioni, della circolazione delle immagini, favorito anche da quel che possiamo definire un autentico “viavai” di artisti che all’epoca viaggiavano da una sponda all’altra per nulla intimoriti dalla vastità dell’Atlantico. A puro carattere dimostrativo citiamo l’esempio di Luigi De Servi che insieme a Sartori è incluso nel padiglione argentino (non in quello italiano) della grande esposizione internazionale di Buenos Aires del 1910: De Servi è in Argentina dal 1883 al 1887; dalla metà del 1888 al 1890; nel 1909; dal 1910 al 1914, infine nel 1920-21.
Il Sartori argentino è dunque un pittore eminentemente simbolista. Possiamo fare questa affermazione in base alle opere che sono attualmente disponibili; grazie ad alcuni cataloghi, in particolare quelli dei Salon annuali allestiti a Buenos Aires dal 1911 al 1918 i quali, pur in assenza di immagini, riportano i titoli delle opere che sono chiaramente di natura simbolista; inoltre ci sono pervenute alcune riproduzioni del calendario dello stabilimento grafico Gunche Wiebeck y Turtl in questo stile; infine ce lo conferma un articolo di giornale del 1920 che salutando il pittore in partenza per l’Italia scrive: “E buon viaggio auguriamo a Federico Sartori, il pittore rivoluzionario, come giustamente ebbe a chiamarlo il nostro Renato Censori in una delle sue belle critiche, il simbolista, produttore fecondo…”.
Le opere che abbiamo potuto visionare in originale e in riproduzione ci consegnano un artista che ha conosciuto e metabolizzato il simbolismo europeo, che ne ha rielaborato le caratteristiche principali e quelle più suggestive non scevro da contaminazioni preraffaellite ma anche Liberty.
Emblematico in questo senso il ritratto della moglie, realizzato intorno al 1920 sembra tuttavia aderire pienamente a quella che era la ritrattistica preraffaellita e simbolista: il volto si delinea come una apparizione nella penombra, gli orecchini sono delle vere e proprie presenze ed hanno più di una mera valenza ornamentale, conferiscono al volto della moglie quella atmosfera carica di mistero e di evocazione fantasmatica tipica della ritrattistica simbolista. Ma più in generale vediamo Sartori utilizzare a piene mani gli stilemi simbolisti in chiave più prettamente allegorica che non onirica: mentre il simbolismo europeo era carico di visioni che preconizzavano l’inconscio, per Sartori assume una forte caratterizzazione “civile”, ossia vuole chiaramente esprimere dei concetti e non evocarli. Dimostrativi in tal senso sono sia “La bandera argentina “sia le due versioni della “Lucha entre el morbo y la ciencia”, dove possiamo verificare quanto la lezione di Odillon Redon come quella di Max Klinger siano pienamente utilizzate dal Nostro per costruire allegorie e atmosfere esemplari. Quello che ci interessa rilevare qui, più che la derivazione o l’ “omaggio”, sono la naturalezza e l’autorevolezza con cui Sartori costruisce le sue opere conferendo loro un indubbio effetto scenico evocativo, sia a quelle nate a scopo celebrativo documentario sia ad una serie di piccole opere, che ci sono giunte senza titolo e senza contesto, che possiamo reputare comunque validi esempi di tali rielaborazioni “(Allegoria 1,2,3,4)”.
Il successo di questa sua produzione presso i suoi contemporanei è testimoniato dalla scelta fatta dalla Gunche Wiebeck y Turtl di utilizzare sue opere per un oggetto di largo consumo come un calendario stampato in occasione di un anniversario dello stabilimento grafico.
La prima mostra importante a cui Sartori partecipa è l’Esposizione Internazionale di Buenos Aires del 1910 che, se da un lato sembra totalmente ignorare quanto di nuovo e sperimentale si va definendo nelle arti figurative in Europa, dall’altro sancisce la definitiva acquisizione delle rivoluzioni avvenute nell’ultimo scorcio dell’Ottocento. Sono infatti presenti, ad esempio, nel padiglione tedesco Lovis Corinth, Kate Kollwitz, Franz Von Stuck, in quello austroungarico Otto Friedrich, Fernand Khnopff, in quello francese Pierre Bonnard, Maurice Denis, Claude Monet, Odillon Redon, Auguste Renoir, Auguste Rodin, Emile Antoine Bourdelle, Edward Burne Jones, ma al contempo sono totalmente assenti artisti quali Pablo Picasso o Henri Matisse solo per citare due dei maestri che stavano in quel momento segnando svolte radicali nella concezione stessa dell’opera d’arte. Sartori presenta tre quadri simbolisti: “Sueño de la libertad”, “Lux”, “La bandera argentina “e appare, come detto, insieme a Luigi De Servi non nel padiglione italiano ma fra gli artisti argentini. Nel padiglione italiano, fra gli altri, sono presenti: Francesco Gioli, Luigi Gioli, Vittore Grubicy De Dragon, Emilio Gola, Amedeo Lori, Angelo Morbelli, Plinio Nomellini, Gaetano Previati, Leonardo Bistolfi, Paul Troubetzkoy.
L’esposizione ratifica l’Ottocento ma fra le opere pubblicate non vi sono quelle degli artisti che noi qui sopra abbiamo citato. Prevale tanta sana, buona arte ottocentesca “classica “accanto alla quale il Divisionismo e il Simbolismo sono le rivoluzioni “accettate”. Proprio la consolidata presenza dei simbolisti colloca l’opera di Sartori nell’attualità, il suo prestigio e la considerazione del valore della sua ricerca vengono confermate in quella sede dalla assegnazione della medaglia d’argento all’opera “La bandiera argentina”.
Tuttavia proprio da quel 1910 cominciano ad apparire nella produzione del Nostro le prime opere che indicano l’avvio già in Sud America di quello stile che abbiamo definito caratterizzato da campiture ampie con riferimenti al “cloissonnisme “dalla presenza di stesure di bianco puro e dai contorni blu (“Bailando el gato”, “Palladores”, “Enlazando un toro”, “Registro civil”) che torna in alcune opere italiane realizzate intorno agli anni Trenta (ad esempio “Sul lungarno a Pisa”, “Carretto con cavallo e contadino a cavallo”, “Cavalli al trotto”, “Buoi”); alcune immagini domestiche, fra cui i ritratti del figlioletto Mario, mostrano, sempre nell’ultimo decennio argentino, la scelta di registri impressionisti che trasmigrano verso il Divisionismo.
Il Sartori che rientra dall’Argentina nel 1920, a cinquantacinque anni compiuti, ci appare come un pittore che potremmo definire serenamente eclettico, disinteressato alle rivoluzioni che si erano compiute nel frattempo nelle arti figurative europee dalle Avanguardie Storiche, si concentra su una pittura di cavalletto di linguaggio divisionista con accentuazioni coloristiche assai simili a quelle già espresse in Versilia dai cosiddetti “pittori del lago”, ossia dal gruppo di pittori che si era riunito a Torre del Lago intorno a Giacomo Puccini alla fine del XIX secolo e che certamente Sartori aveva conosciuto, se non frequentato, in Argentina. Vale la pena di notare infatti che il divisionismo di Sartori è scevro dalle evocazioni simboliste che aveva assunto in Italia con Pellizza da Volpedo, Previati, Segantini, per diventare invece il linguaggio della rappresentazione dei luoghi nei quali Sartori decide di vivere primo fra tutti la città di Viareggio. In primi dipinti eseguiti nella cittadina toscana nei primi anni Venti fra cui “Entrata delle paranze”, “Cavallo al sole”, “Alla fonte”, “Paranze nel porto “– che fra l’altro furono esposti anche nel 1934 alla Mostra Marinara nei locali della Lega Navale a Viareggio – echeggiano l’esperienza coloristico divisionista che dovette apparirgli congeniale per tradurre la luce locale e i colori della Darsena, satura di toni con i riflessi delle vele variopinte nelle acque del canale, i vapori rosacei dei tramonti marini, e tutto sommato anche una sorta di percezione delle fatiche degli abitanti come alacrità positiva.
Al Simbolismo, sempre più contaminato dallo stile neoliberty, Sartori riserva la produzione di immagini di evocazione epico-storica che prosegue anche in Italia.
Particolarmente preziosi per cercare di tracciare l’attività artistica del Nostro in questi venti anni risultano gli articoli di giornale, pochi ma ricchi di descrizioni di opere, che appaiono sulla stampa locale in occasione di alcune personali che il Nostro allestisce a Viareggio.
Nel 1922, dopo un anno o poco più che l’artista si è stabilito in Versilia, una personale alla Galleria Nettuno conta diciannove quadri che in gran parte ritraggono scorci locali e che quindi mostrano quanto immediato fosse stato l’ambientamento del pittore e la sua capacità di mettersi al lavoro immerso nel paesaggio, per lui nuovo, di Viareggio e dei suoi abitanti, indigeni e forestieri. Si legge in una nota apparsa su “Il giornale d’Italia” il 6 settembre 1922: “…In pochi mesi di permanenza a Viareggio, egli si è reso padrone degli angoli più nascosti e pittoreschi del nostro paese e li ha rappresentati con straordinaria evidenza. I quadri che espone sono quasi tutti scene e visioni viareggine, che egli ha eseguito in pochi mesi lavorando con un ardore ed una resistenza più giovanili. “Il ponte di Pisa”, “Il veglione al Politeama”, la “Stazione d’inverno”, “Via Pinciana“, “I pescatori di cee”, “Il ritorno delle paranze”, “Nella spiaggia”, Molti quadri sono fatti per divisionismo, e qui rivelano di più le qualità di artista del Sartori, perché dalla sin cromatica disposizione di colori distinti, sa ritrarre effetti che sarebbe assai difficile ottenere in altro modo. Il Sartori espone anche felici concezioni allegoriche ed alcune originali sintesi della Divina Commedia e della guerra europea”.
Le “felici concezioni allegoriche” forse sono gli acquerelli riportati dall’Argentina, ma possono essere anche nuove elaborazioni, in ogni caso l’ulteriore informazione relativa ad opere ispirate alla “Divina Commedia “ci fa immaginare realizzazioni in chiave simbolista; infine il riferimento a esemplari sulla guerra rende meno avulse nella sua produzione le opere che esporrà nel 1924 alla Biennale di Venezia. Il quattro grandi disegni esposti nella sezione bianco e nero della rassegna veneziana del 1924, intitolati appunto “Quattro anni di guerra”, sono una ulteriore prova della vocazione eclettica del nostro che in quest’opera, in teoria destinata a essere tradotta in opera permanente nel soffitto del padiglione, o comunque in un analogo spazio, di chiara ispirazione epico-celebrativa, si pone al punto diametralmente opposto dei dipinti da cavalletto coevi, e nello stile e nella concezione. Cosi come i piccoli oli si addentrano nella descrizione realistica della vita quotidiana e del paesaggio dove essa si svolge, i “Quattro anni di guerra “ignorano quel che era effettivamente stata la realtà del conflitto per trasporla in una dimensione dove il soldato assume le fattezze di un eroe greco, il corpo a corpo delle trincee una sorta di titanica lotta.
Alla guerra Sartori dedicò anche l’unica realizzazione scultorea conosciuta, il Monumento ai Caduti di Baiedo, un bassorilievo con taglio decisamente più realistico dove al gesto di conquista si accompagna l’espressione di fatica e sofferenza dei soldati.
Un altro esempio del singolare eclettismo della pittura di Sartori è evidenziato da un’opera databile intorno al 1924, quando l’artista ebbe per un certo periodo uno studio a Pietrasanta, dedicata alla narrazione di un fatto storico (che in zona ha sempre avuto connotati leggendari) ossia la presenza in loco di Michelangelo. Sartori non esita a cimentarsi in quella che potemmo definire, sia pure in grandi dimensioni, una “illustrazione” contraddistinta dalla meticolosità con cui tratteggia gli edifici e la piazza, realismo che conferisce dimensione di “fatto compiuto “a quanto in quello spazio urbano sta avvenendo: il trasporto di un enorme blocco di marmo sotto l’occhio vigile del grande scultore.
Nel 1933 si ha notizia di un’altra consistente personale allestita dal pittore presso lo Stabilimento balneare Narcisa, si legge in una cronaca apparsa su “Il giornale d’Italia” il 17 agosto 1933: “Un artista robusto, generoso, prepotente, originalissimo si conferma il pittore Sartori, il quale in una serie di cinquantun quadretti, tutti di uguali dimensioni, ma vasti di composizione e densi di umanità, dà, anche in questo campo, un raggio della sua attitudine al quadro complesso e movimentato, gloria del periodo aureo della pittura italiana, vana invidia di molti pittori di oggi. Due sono i motivi fondamentali che hanno guidato l’artista nella esecuzione dei quadri esposti in questi giorni per la prima volta al pubblico: rappresentazione di aspetti folkloristici argentini (il Sartori ha trascorso gran parte della sua giovinezza in Argentina), e visioni di Viareggio colta e rappresentata negli angoli più originali e più noti. Il Sartori è un artista dal tocco rapido e veloce, dall’ampio respiro, dominato da una visione di masse di movimento per le quali occorrono tele gigantesche; e pur tuttavia se la visione pare quasi straripare dalle cornici dei ristretti quadri presentati oggi agli amatori, il quadro è perfetto ed uomini e cose nella composizione minuta, hanno sorrisi, movimenti, passioni contenute ed espresse, che solo uno sperimentato ed abile artista poteva tentare e cogliere con tanta felicità”.
Quasi certamente le opere in piccolo formato tuttora di proprietà della famiglia furono esposte in questa mostra, o comunque hanno caratteristiche uguali a quelle di cui parla l’articolo. Esso ci prova che anche in questo caso, e senza esitazione, Sartori espone diversi aspetti della sua produzione e permette un confronto analogo a quello che cogliamo oggi in questa retrospettiva: la compresenza di linguaggio divisionista, dei paesaggi
segnati dai bianchi puri e dai contorni blu eseguiti sia in Argentina negli anni Dieci sia ora in Versilia, infine l’ultima produzione per campiture estese, piatte, che lo conducono a quella rappresentazione di tipo bidimensionale propria della cartellonistica. Scene di vita quotidiana che spaziano da visioni di campagna e di città, dalle lezioni di tennis alle prime corse in auto, alle corse ai cavalli, fino ai ritratti di Elpidio Jenco, Leone Leoni. Non è escluso che per la rappresentazione vacanziera di opere quali “Coppia di tennisti in pineta “(1930), “Taverna del Gatto Nero “(1933), “Tennis Italia “(1933), scelga la dimensione bidimensionale della cartellonistica quasi a voler significare una sana superficiale leggerezza della “città loisir”, quando invece un che di epico aleggia sul “Pescatore di cee “(1931), che emerge dal buio come una visione a ridosso dell’enorme chiglia che lo sovrasta, mentre scruta nell’oscurità in cerca dei minuscoli preziosi pesciolini. Nulla sfugge all’occhio dell’artista, quindi non poteva non esserci in questo suo racconto il carnevale del quale tuttavia non coglie la coreografia della festa ufficiale, bensì un’istantanea di maschere, un onirico baccanale.
Assai particolari in questo contesto risultano i due dipinti “Marginetta presso il ponte di Pisa “(1931), “Fanciulli alla fontanella al tramonto “(1931) immagini di vita quotidiana pervase da una visione intimistico paternalistica, uguali nel formato e nelle atmosfere, che apparentemente sembrano di marcata impaginazione ottocentesca ma la costruzione prospettica degli edifici sembrerebbe risentire della prospettiva sfalsata dechirichiana. Momento sperimentale “sui generis”? Al momento è difficile azzardare ipotesi, lasciamo la domanda in sospeso in attesa di verificare se l’eventuale esistenza di altre opere simili autorizzi risposte certe. Di questo periodo ci rimangono anche alcuni esemplari di illustrazioni ormai scevre dal linearismo liberty e misurate piuttosto su un linguaggio sintetico sia nelle forme che nei colori, come ad esempio “Lezioni di geografia, Lezioni di ittica.”
La pittura sacra può essere considerata nell’attività artistica di Sartori un vero e proprio filone parallelo che si sviluppa nel corso degli anni seguendo una linea di ricerca e di linguaggio indipendente. Non abbiamo dati in proposito ma nulla ci porta ad escludere che essa sia cominciata già in Argentina, certamente ha un ruolo molto consistente nei venti anni trascorsi in Italia. Opere a soggetto sacro si rintracciano in numerosi disegni, quadri, bozzetti. Se quasi certamente la sua opera più importante e impegnativa sono gli affreschi della chiesa della Misericordia eseguiti a Viareggio nel 1928, un articolo del 1929 parla di ben ottanta quadri realizzati per due chiese cattoliche degli Stati Uniti. Alla produzione sacra di Sartori aveva fatto riferimento lo stesso Giuseppe Viner quando in un articolo del 1925 scriveva: “…alcuni suoi quadri d’arte sacra sono fra i migliori che io conosca, per essere personali e moderni, immuni di quel misticismo falso e manierato che rende spesso insopportabili i quadri religiosi dei nostri tempi. Alle pareti dello studio che Federico Sartori ha improvvisato a Pietrasanta, noto come più meritevoli alcune teste di apostoli e profeti, vari bozzetti di scene del Vangelo; ma principalmente mi piace ricordare una vasta tela, vasta di misura e di significazione in cui l’artista ha rievocato il dramma di Giuda di Keriot. In uno sfondo d’uragano il traditore perseguitato dal rimorso vede apparire tangibile e scusabile l’atroce sua colpa: il Cristo crocefisso disteso in terra immenso e terribile livido e rattrappito sul legno del martirio. Il peccatore si abbatte in ginocchio attanagliato dal dolore e lascia cadere i trenta scudi, il prezzo del delitto. La tela è dipinta con larghezza e con sicura maestria- molto ardito è lo scorcio del Cristo e bella specialmente la testa- la figura di Giuda esprime in ogni muscolo in ogni attitudine la tragedia che lo strazia e lo condurrà a morire. Come colore l’opera ricorda la ricerca dell’effetto; ma poiché ricercare quello che meritatamente si raggiunge è bene, così non mi sembra il caso di fare riserve”.
Infine la fotocopia di un articolo del 1929, priva purtroppo di altri riferimenti si legge: “…Ma fra le decorazioni murali egli ha una particolare affezione e simpatia per le opere a soggetto religioso nelle quali lavora con l’entusiasmo e la passione della sua arte, trasfondendo nelle ampie raffigurazioni tutta la sincerità ingenua del suo animo, mentre la valentia del suo pennello non conosce difficoltà ed affronta senza esitanze la risoluzione dei problemi più ardui, in special modo negli scorci nei quali il Sartori è indubbiamente maestro. Egli non si vale di regole né di cartoni, né di spolveri, ma improvvisa le sue composizioni sull’intonaco fresco, guidato soltanto dalla sua ispirazione e da un senso di profondo misticismo, per cui i personaggi mostrano, con semplicità di mezzi ma con vigore e intensità di espressione, i loro intimi sentimenti spirituali. Un’altra caratteristica di questo eccezionale temperamento di artista è la rapidità vertiginosa con cui crea e effettua le sue opere a fresco, celerità propria di chi pronunzi un discorso improvvisato; per cui il suo pennello narra con calde e appassionate notazioni la devozione o l’estasi, il martirio della vita terrena o il gaudio e la beatitudine celeste delle sue tormentate o glorificate creature”.
La vicenda artistica e umana di Federico Sartori si configura esemplare e analoga a quella di numerosi altri artisti italiani a lui coevi che, al di là delle rivoluzioni compiute dalle avanguardie storiche riuscì a soddisfare il desiderio di rappresentazione della propria vita di una borghesia legata ad una visione della pittura intesa come rappresentazione della vita contemporanea a prescindere dai conflitti che l’epoca comunque stava manifestando o vivendo. La committenza di Sartori così come i suoi collezionisti appartengono a quella classe sociale che intendeva vedere nella pittura il ritratto più o meno fedele della propria contemporaneità e dei luoghi dove essa viveva. Egli contribuì a creare un’arte che seppe narrare attraverso la pittura, in un’epoca di profonde trasformazioni, sia la vita quotidiana sia l’“immagine” di una società che, evolvendosi, andava creando una nuova iconografia adatta a rappresentarla. Le sue stesse scelte di vita, quella di emigrare in Argentina e al ritorno di trasferirsi in Versilia, rendono la sua esperienza esemplare di un atteggiamento comune tipico dell’epoca, che vide intellettuali e uomini di cultura varcare gli oceani non solo in cerca di fortuna ma anche di un diverso modo di vivere, o individuare in questo lembo di Toscana un luogo ideale non solo per la qualità della vita quotidiana ma anche per la creazione e la ricerca.
Sartori inoltre si iscrive a buon diritto fra gli artisti che hanno contribuito a raccontare attraverso la pittura la storia della città di Viareggio, avendone allora in cambio un immediato riconoscimento del suo talento e importanti committenze. Se la sua vita e la sua arte hanno condiviso, come quelle di altri artisti, l’atmosfera e il successo di un’epoca, altrettanto hanno conosciuto l’oblio che ha successivamente avvolto e talvolta addirittura quasi derubricato queste esperienze dalla storia dell’arte del periodo. Tuttavia gli studi che in questi anni hanno avviato una serie di recuperi e di riflessioni su quanto avvenuto nella produzione artistica italiana, parallelamente alle avanguardie, nel periodo in questione, lasciano supporre che anche una figura come quella di Federico Sartori possa ottenere l’adeguato riconoscimento e rivalutazione che merita.
Testi: Antonella Serafini
© Studio d’Arte dell’800